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sexta-feira, 7 de agosto de 2015

DEREK WALCOTT





«Sono nessuno o sono una nazione»: 
questo verso può valere come epigrafe per tutta l’opera di Walcott. 
Della quale si può dire, innanzitutto, che ci offre la forma più alta, oggi, della lingua inglese – forse anche perché proviene da quei luoghi dove «il sole, stanco dell’impero, tramonta», da una immensa periferia marina, i Caraibi, dove quel sole, tramontando, «porta all’incandescenza un crogiolo di razze e di culture» (Brodskij). 
«Io sono soltanto un negro rosso che ama il mare» dice un altro verso, 
ma (leggiamo altrove) uno i cui «occhi ardevano per la prosa cinerea di John Donne». 
Già questa congiunzione di elementi, questa somma di tribù divise nelle stesse vene, 
e insieme la stupefacente felicità verbale, la capacità di nominare le cose come in un remoto e scintillante «canto dei marinai» rendono unico Walcott e rimandano alla più sobria e precisa descrizione che a lui ha dedicato il suo critico, ma anche poeta, più congeniale, Iosif Brodskij: «Walcott non è un tradizionalista né un “modernista”. 
A lui non si adatta nessuno degli “ismi” disponibili e degli “isti” che ne conseguono. 
Non appartiene a nessuna “scuola”: non ce ne sono molte nei Caraibi, se si eccettuano quelle dei pesci. Si sarebbe tentati di chiamarlo un realista metafisico, ma il realismo è metafisico per definizione, così come vale l’inverso. E poi, è un’etichetta che saprebbe troppo di prosa. Walcott può essere naturalista, espressionista, surrealista, imagista, ermetico, confessionale – a scelta. 
Semplicemente, egli ha assorbito, al modo in cui le balene assorbono il plancton o un pennello assorbe la tavolozza, tutti gli idiomi stilistici che il Nord poteva offrire: adesso cammina con le sue gambe, e a grandi passi».

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